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La funzione politica del presepe

Ottocento anni fa, il giorno di Natale del 1223, Francesco d’Assisi organizzò a Greccio, vicino Rieti, quello che è stato considerato il primo presepe della storia del cristianesimo. È difficile dire se davvero quello di Greccio fosse il “primo” presepe, anche perché la festa del Natale era presente nella vita liturgica della Chiesa da secoli e rappresentazioni pittoriche e scultoree della natività c’erano già, anche loro, da secoli. Bisogna chiarire che intendiamo per “presepe” per poter giudicare: non è stato sicuramente quello di Francesco un presepe con le statuette, come si allestisce oggi (questa è roba napoletana del XVIII secolo). Quello che ha allestito Francesco a Greccio è una rappresentazione scenica della natività di Gesù, ecco possiamo dire che forse è stato il primo “presepe vivente” della storia.

Ma anche in questo senso il presepe di Francesco è molto diverso dai presepi viventi che si organizzano nelle vie delle nostre città durante le dodici notti (quelle che vanno dal 25 dicembre al 6 di gennaio). Nel presepe di Greccio non c’erano Maria, né Giuseppe, né gli angeli o la stella cometa, né tantomeno Gesù Bambino (anche se fra Tommaso da Celano ci racconta nella biografia di Francesco d’Assisi che “un uomo assai virtuoso” abbia visto, miracolosamente, un bambino nella mangiatoia). C’era soltanto una stalla con degli animali, il bue e l’asino, e la mangiatoia (ovviamente, perché presepe significa mangiatoia), vuota ma carica di significato. Lì è stata celebrata la messa e Francesco (che non ha celebrato la messa perché non era prete) ha fatto una memorabile predica. Quello di Greccio è stato un presepe pedagogico-didattico, per insegnare qualcosa agli abitanti di Greccio e ai suoi frati, e quello uscito da Greccio era un insegnamento eminentemente politico.

Intanto per capire bisogna conoscere il contesto. Il 1223 è stato un anno difficile per Francesco. È stato l’anno della stesura e promulgazione della cosiddetta “regola bollata”, quella ufficialmente riconosciuta dalle autorità pontificie come la regola che dovevano seguire i frati dell’ordine religioso francescano. Il fatto di avere tantissimi frati che si univano a lui ha provocato in Francesco sempre grande preoccupazione. Finché erano pochi l’aspetto organizzativo era semplice, spontaneo, non necessitava di una vera e propria regola, bastava il Vangelo. Con il passare degli anni, però, la necessità di una vera regola si faceva impellente. Nel 1221 viene redatta la cosiddetta “regola non bollata”, cioè uno scritto abbastanza lungo nel quale si erano sedimentate la spiritualità e la prassi evangelica di Francesco e dei francescani fino a quel momento. Più che una regola, nel senso formale del termine, la regola non bollata è uno scritto esortativo, quasi teologico-spirituale, sull’essenza della vita francescana. Un testo davvero molto bello ma, secondo molti frati dell’epoca, troppo radicale, difficilmente applicabile alla lettera. Ecco la necessità di rimettere mano e formulare una nuova regola, formalmente un po’ più giuridica, sicuramente più semplice e meno radicale. Ecco la nascita, nel novembre del 1223, della regola bollata, l’attuale regola francescana.

Non sappiamo con precisione quanto Francesco apprezzasse questi cambiamenti nella vita dei suoi frati. Una delle categorie religioso-spirituali che ha accompagnato la lettura e la vita del Vangelo in Francesco è la povertà. La povertà nella regola bollata è sicuramente coerente con lo spirito francescano, non c’è dubbio, ma se confrontiamo cosa dice la regola bollata rispetto a quella non bollata sulla povertà, c’è un abisso.

Dieci giorni dopo la promulgazione pontificia della regola francescana, avvenuta il 29 di novembre, Francesco si trovava a Greccio. Chiama un uomo fidato, tale Giovanni, e gli chiede di preparare una stalla con gli animali per la celebrazione del Natale. La notte del 24 dicembre si riuniscono tutti davanti alla mangiatoia di quella stalla e dopo la messa Francesco pronuncia il suo discorso politico. Nessuno ha trascritto le parole di Francesco e possiamo ricostruire soltanto per accenni quello che presumibilmente ha detto ai presenti.

Sicuramente ha ricordato il suo viaggio in Terra Santa, chiamando il bambino Gesù, Gesù di Bethlehem, marcando la pronuncia, tanto che i presenti sentivano come il belato di una pecora, facendo emergere una sorta di interessantissimo “Gesù delle pecore” oltre che dei pastori. Poi, davanti alla mangiatoia, avrà sicuramente messo in evidenza la nascita povera di Gesù. Una povertà vera. E la povertà vera è soprattutto quella del cibo. La mangiatoia, cioè il presepe, è un luogo dove si mangia, dove gli animali mangiano. Decenni più tardi, il movimento dei francescani spirituali, quelli che volevano vivere la povertà francescana in maniera più rigorosa, la loro avversione verso ogni tipo di proprietà, anche verso il cibo che mangiavano, la paragonavano al mangiare dei cavalli, i quali mangiano l’erba del prato senza essere proprietari del prato. Il bue e l’asinello del presepe di Greccio non sono i proprietari del fieno presente nella mangiatoia. Se hanno fame lo mangiano ma se qualcun altro deve appoggiarci una creatura appena nata per farla stare calda, può farlo.

È questo lo spirito della povertà francescana, presente nella regola non bollata ma messo in ombra nella regola bollata. I ricchi, che pretendono di essere i possessori delle risorse del sostentamento, non posseggono nulla. I poveri che chiedono l’elemosina e i frati, anche loro poveri, che mendicano per loro e, a volte, anche per altri poveri che non hanno la forza di chiedere, non sollecitano un atto di generosità da parte dei ricchi, ma un atto di giustizia. Le risorse economiche sono di tutti, soprattutto di quelli che non le hanno nelle immediate possibilità, i poveri, e loro hanno il diritto di chiedere ed essere sfamati.

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