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A more perfect (dis)union. George Floyd e le politiche di Barack Obama

Prima dell’omicidio di George Floyd e le rivolte di questi giorni nelle città statunitensi, ad un osservatore superficiale della storia sociale degli Stati Uniti d’America, come potrebbe essere uno chiunque di noi, la questione razziale si credeva oramai superata. L’elezione di Barack Obama sembrava aver messo fine ai conflitti razziali in qual paese, conflitti che hanno raggiunto il largo pubblico in Europa prima del 2008 solo con le notizie della rivolta di Los Angeles nel 1992 e l’affare O. J. Simpson. Ricordo benissimo il discorso di Obama a Philadephia in piena campagna elettorale del futuro primo presidente nero degli USA. Magnifico, struggente, pieno di passione politica e carico di rinnovamento per il futuro del paese.

Quel discorso voleva rispondere alla pubblicazione dei sermoni del Reverendo nero Jeremiah Wright, pastore della chiesa frequentata dalla famiglia Obama a Chicago, che avrebbero potuto presentare il futuro presidente come portatore di odio razzista. Le prediche del Reverendo Wright, infatti, erano esplicite accuse al governo americano, in pieno stile biblico-profetico, sulle politiche razziste e segregazioniste perseguite da sempre contro gli afroamericani. «Il governo degli Stati Uniti mente quando dice di credere che tutti gli uomini sono stati creati uguali. In verità essi credono che tutti gli uomini bianchi sono stati creati uguali. […] Quando andò a trattare equamente i suoi cittadini di provenienza africana, l’America fallì. Li mise in catene, il governo li mise in alloggi per schiavi, li mise sui blocchi di vendita all’asta, li mise nei campi di cotone, li mise nelle scuole peggiori, li mise in edilizia senza regole, li adoperò come esperimenti scientifici, li impiegò nei lavori pagati peggio, li mise fuori della protezione della legge, li tenne fuori dai loro bastioni razzisti dell’istruzione superiore e li chiuse in posizioni di disperazione e infelicità. Il governo dà loro droghe, costruisce per loro prigioni più grandi, promulga leggi più severe e poi vuole che noi cantiamo “Dio Benedica l’America”. No, no, no, non Dio Benedica l’America, Dio maledica l’America — come nella Bibbia — per aver ucciso persone innocenti. Dio maledica l’America per aver trattato i nostri cittadini meno che esseri umani. Dio maledica l’America, finché tenta di agire come se lei fosse Dio e un essere superiore. Il governo degli Stati Uniti ha fallito con la maggioranza enorme dei suoi cittadini di provenienza africana».

A queste parole Obama doveva reagire e lo fece con il famoso discorso al National Costitution Center di Philaphia, Pennsylvania, il 18 marzo 2008. Non nega la storia riassunta da Jeremiah Wright, dice che «l’errore profondo dei sermoni di Reverendo Wright non è stato quello di parlare di razzismo nella nostra società. È stato quello di parlare come se la nostra società fosse statica; come se nessun progresso fosse stato fatto; come se questo Paese – un Paese che ha reso possibile ad uno di suoi membri di correre per la carica più alta e costruire una coalizione di bianchi e neri, latini ed asiatici, ricchi e poveri, giovani e vecchi – fosse ancora legato irrevocabilmente ad un tragico passato». Infatti, Obama trova nei principi della Costituzione americana, che duecentoventuno anni prima veniva promulgata proprio su quelle stesse stanze a Philadelphia, la risposta ai problemi del razzismo del Reverendo Wright: “a more perfect union”. Quelle parole scritte su di una pergamena, però, continia Obama, non sarebbero state sufficienti da sole a cambiare le cose se una quantità enorme di persone non si fosse impegnata, mettendo in gioco anche la propria vita, per perfezionare questa unione, sconfiggendo la schiavitù, lottando per l’abrogazione delle leggi segregazioniste e provando a vincere il razzismo con la collaborazione. «Questo è stato uno dei compiti che ci siamo dati all’inizio di questa campagna – disse Obama, per concludere – continuare la lunga marcia di chi è venuto prima di noi, la marcia per un’America più giusta, più uguale, più libera, più attenta e più prospera. Ho scelto di correre per la presidenza in questo momento storico perché sono convinto che le sfide del nostro tempo non si possono risolvere se non le risolviamo insieme, se non perfezioniamo la nostra unione capendo che possiamo avere storie diverse ma abbiamo speranze comuni; che possiamo sembrare diversi e possiamo provenire da posti diversi, ma vogliamo muoverci nella stessa direzione, verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti». E qui applausi a scena aperta e voti in abbondanza.

Poi? Poi c’è stata la crisi del 2008, i salvataggi delle banche, gli aiuti alle aziende automobilistiche, la ripresa dell’economia, una nuova crescita economica ma per pochi, come sempre. Dal 2008 in poi si può parlare, come ha fatto Eddie Glaude Jr. in Democracy in black, di “grande depressione nera” per indicare il livello di devastazione degli indici di benessere della popolazione afro-americana. Nel 2008 la ricchezza bianca era 13 volte maggiore di quella nera, nel 2010 il tasso di disoccupazione afro-americano era al 16%, nel 2011 gli afro-americani hanno perso il 50% della loro ricchezza.  A oggi il 38 percento dei bambini neri vivono in povertà e ci sono più bambini neri poveri che bambini bianchi poveri, quando negli Stati Uniti i bambini bianchi sono tre volte più numerosi dei bambini neri.  L’America bianca ha consolidato la ripresa, mentre quella nera ha proseguito in direzione opposta con perdita immediata di lavoro, disoccupazione a lungo termine e incremento della povertà. Per non parlare dell’effetto coronavirus, che sta colpendo in maniera più massiccia poveri e neri senza un sistema sanitario all’altezza delle aspettative sociali.

Come hanno notato molti, Barack Obama nel corso del suo mandato ha “strategicamente” evitato di occuparsi di politiche a favore dei neri americani. La politica perseguita dal primo presidente nero della storia è stata quella coerente alla more perfect union cioè che per i neri non debbano essere adottate soluzioni specifiche: se gli Stati Uniti si arricchiscono, lo fanno anche i poveri; e se prosperano i poveri, avanzano anche i neri; in definitiva, un appianamento della realtà che ha reso Obama più bianco dei bianchi. La sua necessità di non essere giudicato come il presidente “nero” ma il presidente di tutti gli americani ha frustrato tutte le speranze che si erano proiettate sulla sua presidenza e sulla sua persona. Una mancanza di politiche “nere” che oggi gli Stati Uniti stanno pagando cara, soprattutto se si pensa che se non sono state realizzate sotto la presidenza Obama difficilmente lo saranno sotto la presidenza Trump.

Curioso è anche quello che Barack Obama ha detto in questi giorni parlando delle proteste esplose in moltissime città statunitensi: «Se vogliamo portare un cambiamento reale, la scelta non è tra la protesta e la politica. Dobbiamo esercitarle entrambe. Dobbiamo mobilitarci per aumentare la consapevolezza e dobbiamo votare per fare in modo di eleggere candidati che agiranno per le riforme». Già, ma di quali candidati ci si può fidare?

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