Nel 1893 veniva pubblicato negli Stati Uniti lo studio di Frederick Jackson Turner, Il significato della frontiera nella storia americana. È la pubblicazione che ha fatto nascere il “mito della frontiera”, la frontier thesis, uno dei pilastri della cultura americana. La “frontiera”, nella cultura americana, è legata alla conquista del West, del selvaggio West, perseguita e realizzata nel corso del XIX secolo, è legata all’azione dei coloni che con i loro carri portavano la civiltà in luoghi sempre più selvaggi, all’azione dei cercatori d’oro che con la loro individuale ricerca della ricchezza realizzavano il sogno e lo stile di vita americano. La frontiera americana è (stata) l’esatto opposto dei confini europei, i quali sono sempre stati il limes tra due civiltà, tra due territori omologhi e noti. La frontiera no. La frontiera è la scommessa verso l’ignoto, verso il selvaggio non ancora, che solo i mandriani con i loro capi di bestiame riuscivano a dominare, che solo gli operai delle ferrovie nella realizzazione di binari sempre più lontani riuscivano a costruire.
Secondo Turner la frontiera è (stata) il fattore decisivo nella formazione della democrazia americana: la continua espansione verso ovest ha forgiato lo spirito indipendente, pratico e innovativo degli americani. Li ha resi un popolo di liberi ed eguali. Ogni fase di avanzamento della frontiera ha rappresentato una rottura con il passato europeo, intriso di vincoli storici e di gerarchie sociali, e una rigenerazione della società americana.
La cosa strana, però, è che lo studio di Turner esce tre anni dopo la proclamazione ufficiale della fine della frontiera. Nel 1890, l’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti dichiarò che non esisteva più una linea di frontiera continua: le terre occidentali erano ormai state tutte occupate, colonizzate o organizzate in insediamenti. Fine della conquista del West, niente più carri dei coloni, niente più nuova linea ferroviaria o nuovi pali del telegrafo.
Fine anche della democrazia americana? Non proprio. Il successo della frontier thesis di Turner sta proprio qui, nella capacità di rilanciare il mito oltre la sua realizzazione storica. Dopo Turner la frontiera si evolve, non riguarda più il Wilde West, ormai inesistente, ma l’intero pianeta. Tutti hanno bisogno della civiltà americana, è il suo “destino manifesto”. Che il resto del mondo avesse bisogno dell’America in campo militare è testimoniato dalle due guerre mondiali e certificato dal Patto Atlantico durante la guerra fredda. Che il resto del mondo avesse bisogno dell’economia americana è testimoniato dal piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa. Che il resto del mondo avesse bisogno della democrazia americana è testimoniato dal fatto che dove c’era democrazia c’era anche crescita economica e benessere sociale.
Che importa, quindi, se questo ha comportato la nascita dell’Impero americano, con i suoi corollari di interventismo nell’America latina, considerata il cortile di casa; se ha comportato l’interventismo in ogni zona del mondo, pensando alla propria forza strategica come un corpo di polizia internazionale; se ha comportato la diffusione e l’omologazione della cultura americana su scala globale, fagocitando e oscurando le culture locali; che importa se le proprie multinazionali hanno fatto del pianeta terra una grande fabbrica, producendo dove costa meno con meno diritti per i lavoratori, e un grande mercato, vendendo dove conveniva di più. È il prezzo da pagare per vivere la migliore civiltà possibile, quella che Dio stesso ha concesso alla terra americana, quella più ad occidente possibile, la civiltà occidentale appunto.
Il secondo mandato presidenziale di Donald Trump sembra certificare la fine di tutto questo. La fine dell’illusione del “destino manifesto”, la fine della frontiera oltre la frontiera. La fine della civiltà occidentale, ora davvero al tramonto. L’America sembra in cerca di confini e distinzioni. Contro il Messico, contro il Canada, contro l’Europa. Non vuole più intromettersi nei destini del mondo. Che ognuno pensi per sé. Ci si è accorti, forse, che il resto del mondo non è natura selvaggia. Non ha bisogno di essere civilizzato. Se insisti troppo ti si rivolta contro.
È qui che va posta la domanda: è anche la fine della democrazia americana? È sempre difficile fare i profeti di sventura ma ci sono tutti i segni per rispondere affermativamente a questa domanda. Se aveva ragione Turner e la democrazia americana è fondata sulla continua espansione verso orizzonti sempre più lontani e selvaggi, la cui lotta per la sopravvivenza e l’affermazione della civiltà rende tutti i cittadini liberi e uguali, la democrazia americana è in grave pericolo. Gli effetti sono manifesti. La libertà è ampiamente compromessa dalle politiche di sicurezza frutto delle paure che il mondo globale ha generato. L’uguaglianza, in un luogo dove la stragrande maggioranza della ricchezza è in mano a poche centinaia di persone, è pura retorica da propaganda. Che il presidente degli Stati Uniti sia un miliardario sponsorizzato dall’uomo più ricco del mondo, fa degli Stati Uniti la bella copia di una caraibica repubblica delle banane.
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