I diritti e i doveri. Due componenti fondamentali del sistema normativo delle democrazie occidentali. Da quando, nel 1795 (duecentotrenta anni fa precisi), in pieno periodo rivoluzionario, in Francia hanno deciso di stilare la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino come preambolo della nuova Costituzione del 5 fruttidoro anno III, diritti e doveri sono andati sempre a braccetto, uno lo specchio dell’altro. In Italia uno dei padri della nostra nazione, Giuseppe Mazzini, ha fatto dei Doveri dell’Uomo uno dei punti di forza dell’emancipazione della classe operaia e dei suoi diritti, oltre che un famosissimo libro. Nel periodo fascista della storia d’Italia l’esaltazione dei doveri ha reso purtroppo superflui i diritti che sono stati recuperati, però, nella Costituzione italiana nel 1948, dove nell’articolo 2 si parla di “diritti inviolabili” e di “doveri inderogabili”.
Benissimo. Ma questa storia non è stata tutta rose e fiori. E una parte delle spine le vediamo emergere ancora oggi. Non è stata rose e fiori già dalla Rivoluzione francese. La prima dichiarazione dei diritti dell’uomo non è stata quella ricordata del 1795 ma un’altra scritta proprio agli inizi della rivoluzione, nell’agosto del 1789. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, così si chiamava, non parla affatto di doveri. E questa mancanza non è stata una disattenzione, una dimenticanza. È frutto di un dibattito serrato che ha avuto come massimi interlocutori due dei più importanti protagonisti del periodo rivoluzionario, l’abbé Sieyés e l’abbé Grégoire. Emmanuel Sieyés contro i doveri e Henri Grégoire a favore dei doveri. L’abbé Grégoire, nel dibattito all’Assemblea durante la stesura della Dichiarazione dei diritti, affermava che il fatto che ogni cittadino viva in società, e non in un ipotetico stato di natura, comporta una limitazione alle libertà naturali dell’uomo che la Dichiarazione deve esplicitare, rendendo pubbliche le costrizioni sociali dell’individuo e i suoi doveri verso la società. L’abbé Sieyés, invece, affermava che l’uomo, entrando in società, non sacrifica una parte della sua libertà, anzi rende la sua libertà più piena. È evidente, continuava Sieyés, che ognuno ha degli obblighi nei confronti degli altri, ma il rapporto reciproco di ciascuno con i suoi simili è implicito nella esplicitazione dei diritti: «ho doveri verso gli altri nella misura in cui riconosco loro gli stessi diritti che ho io». Esistono dunque solo diritti, di cui i doveri rappresentano un caso di figura particolare nello spazio interpersonale.
Le argomentazioni di Emmanuel Sieyés sono state vincenti. Né la Dichiarazione del 1789 né il preambolo alla Costituzione del 1793 parlano dei doveri. Neanche per il pagamento delle tasse si parla di dovere. L’articolo 14 della Dichiarazione del 1789 dice che «Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l’impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione, la riscossione e la durata». Quello che nella Costituzione italiana di oggi è il dovere di pagare le tasse, per i rivoluzionari francesi era il diritto di controllo su ogni aspetto della riscossione delle tasse e dell’impiego della spesa pubblica conseguente.
Evidentemente le questioni non erano definitivamente risolte. Dopo il periodo del Terrore e la necessità di riscrivere una nuova Costituzione nel 1795 ecco che diventa maggioritario il “partito dei doveri”, contribuendo alla stesura della ricordata Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino. La lettura di questa Dichiarazione, però, rende evidente la ridondanza dei doveri una volta stabiliti i diritti. Gli articoli sui diritti sono 22, quelli sui doveri solo 9, di cui il primo una semplice introduzione. Di questi 8 rimasti alcuni hanno questo tenore: «Nessuno è buon cittadino, se non è buon figliuolo, buon padre, buon fratello, buon amico, buon marito» (art. 4), che a parte la dimenticanza delle figliole, delle madri, delle sorelle, delle amiche e delle mogli, lascia trasparire l’indeterminatezza del dovere e la sua difficile applicazione. Forse aveva davvero ragione Sieyés, il rapporto tra diritti e doveri è molto più complesso di quanto lo si immagini superficialmente.
Secondo me, la chiave di lettura del rapporto corretto tra diritti e doveri la si ricava dall’articolo 4 della Dichiarazione del 1789. Esso dice: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge». L’interesse di questo articolo non sta nel richiamo ad una norma evangelica, anche perché la norma viene richiamata al rovescio mentre il richiamo corretto è stato fatto nella Dichiarazione del 1795 proprio nell’ambito dei doveri: «Tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principi, dalla natura impressi in tutti i cuori: “Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi. Fate costantemente agli altri il bene che voi vorreste ricevere”» (art. 2). L’interesse vero sta nell’ultima frase scritta, “i limiti [alla libertà individuale] possono essere determinati solo dalla Legge”. Questa riserva di legge, come si chiama tecnicamente, alla limitazione delle libertà, dei diritti quindi, può essere fatta solo dai rappresentanti del popolo sovrano, in nome della sovranità popolare.
Fare dei doveri una riserva di legge dei diritti naturali e universali dell’uomo non è senza conseguenze. Essa stabilisce una distanza considerevole tra diritti e doveri. Non si trovano tutti e due nello stesso piano. I diritti sono naturali e universali, inviolabili, come dice la nostra Costituzione. Nessuna autorità, Stato compreso, può violarli. I doveri, invece, sono semplicemente inderogabili, non si possono non rispettare perché stabiliti dalla legge, cioè da un’azione positiva dello Stato. Se vogliamo sintetizzare con un linguaggio non giuridico, possiamo dire che i diritti sono il fine della convivenza sociale e i doveri i mezzi, i diritti sono gli obiettivi da raggiungere e garantire, i doveri gli strumenti che lo Stato, attraverso la legge, utilizza per raggiungere quegli obiettivi.
È vero che viviamo in un’epoca in cui c’è stato un capovolgimento dei mezzi in fini, dove il dominio della tecnica, anche quella giuridica, ha messo fuori gioco gli obiettivi politici. Viviamo in un perenne stato d’eccezione, dove le emergenze consentono agli apparati burocratici dello Stato di derogare non solo ai doveri ma anche di violare i diritti. Pandemia docet. Ricordare, però, la gerarchia tra diritti e doveri potrebbe essere un antidoto all’andazzo generale, nella speranza che la notte finisca presto.
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